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Che cos'è lo
Zen?
[...] Il solo vero modo per capire
lo zen è attraverso la conoscenza derivata dell'esperienza diretta.
Nella tradizione zen ciò si ottiene con metodi di addestramento
sviluppati fin dai tempi di Bodhidharma, 1500 anni fa.
L'addestramento zen comporta la pratica regolare dello za-zen,
l'essere membri di una comunità o di una associazione buddhista (Sangha),
il diretto accesso all'insegnamento di una guida spirituale (il
roshi), e lo studio degli insegnamenti del Buddha (il Dharma). Il
Buddha, il Dharma e il Sangha sono conosciuti come i Tre Gioielli.
Le caratteristiche dello zen che lo distinguono dalle altre
tradizioni buddhiste sono così riassunte. Prima di tutto la
trasmissione diretta del Dharma avviene da maestro a discepolo. In
secondo luogo, non vi è dipendenza da scritture o altri scritti
sacri. In terzo luogo lo zen punta direttamente al cuore umano.
Christmas Humphries (1901-1983), fondatore della British Buddhist
Society, ha descritto lo zen come «l'apoteosi del buddhismo... un
assalto diretto alla fortezza della verità senza basarsi sui
concetti di Dio, anima o salvezza».
Tratto da: David Scott & Tony
Doubleday, "Lo Zen" |
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Il giorno in cui Buddha si
illuminò, la gente si radunò intorno a lui e gli chiese: «Cos'hai
raggiunto?». Buddha rispose: «Non ho raggiunto nulla. Sono
semplicemente giunto a vedere ciò che non avevo mai perso. Ho
trovato ciò che già possedevo». A quel punto, in un moto di
compassione, la gente di quel villaggio commentò: «Che peccato, hai
lavorato per niente».
«Sì,» disse Buddha «in un certo senso è vero che ho lavorato
inutilmente. Ma ora ho ottenuto questo vantaggio: adesso non dovrò
più lavorare. Adesso non cercherò più alcunché, non farò alcun
viaggio, non vagherò all'inseguimento di qualcosa: ecco ciò che ho
guadagnato. Ora so di essere dove già ero.»
Tratto da: OSHO,
"L'immortalità dell'anima" |
«Joshu una volta
chiese al maestro Nansen: "Cos'è la Via?".
Nansen rispose:
"La Via è la mente ordinaria".
"Bisogna allora
volgersi verso di essa?", chiese Joshu.
Nansen disse: "Se
cerchi di volgerti verso di essa, te ne allontani".
Tratto da: David Scott & Tony
Doubleday, "Lo Zen" |
Nel
parcheggio di un centro commerciale del Midwest americano, una donna
si fermava sempre a guardare uno strano tipo che proclamava di
essere Gesù Cristo.
Intorno a lui si radunava sempre una folla che lo ascoltava
predicare: «Io sono Gesù Cristo! Venite a me e sarete salvi!».
Un giorno, esasperata, la donna si avvicinò al presunto messia ed
esplose: «Tu non sei Gesù Cristo più di quanto lo sia io. Tu sei un
imbroglione».
Senza battere ciglio, l'uomo che si proclamava Gesù Cristo ribattè:
«Io lo sono e posso provartelo se vuoi. Se vuoi una prova, vieni con
me». Alla donna non rimase che seguirlo e lungo la strada, l'uomo
continuava a ripeterle: «Vedrai se non è vero: io sono proprio Gesù
Cristo!». Alla fine raggiunsero la porta di una casa, e l'uomo
bussò. Passarono alcuni minuti poi un uomo aprì la porta, guardò il
predicatore e urlò: «Gesù Cristo! Sei ancora tu?!».
Il predicatore sorridente disse alla donna: «Lo vedi, ecco la prova
che volevi!».
Tratto da: OSHO,
"La canzone della vita" |
Una
parabola Zen termina così:
Infine egli arrivò di fronte a un imponente castello, sulla cui
facciata erano incise queste parole: «Io non appartengo a nessuno e
a tutti. Prima di entrare, tu eri già qui. Quando te ne andrai,
rimarrai qui».
Tratto da: OSHO,
"La canzone della vita" |
«Imparare la via del Buddha è
imparare a conoscersi. Imparare a conoscersi è dimenticarsi.
Dimenticarsi è essere illuminati da qualsiasi cosa nel mondo. Essere
illuminati da qualsiasi cosa nel mondo è lasciar cadere il proprio
corpo e la propria mente».
Eihei Dogen Zenji (1200-1253),
fondatore del Soto Zen giapponese; tratto da: David Scott & Tony
Doubleday, "Lo Zen" |
Un mistico ebreo iniziò a
preoccuparsi profondamente della propria infelicità...
[...]Una notte, mentre
pregava, disse a Dio: «Non ti chiedo di non darmi l'infelicità
perché, se la merito, sicuramente dovrò riceverla, ma almeno ti
chiedo di non darmene così tanta. Ovunque vedo gente che ride,
mentre io sono l'unico che piange; tutti sembrano essere felici, io
sono l'unico infelice; tutti paiono allegri, io sono l'unico triste,
perso nell'oscurità. Dopo tutto, cosa ti ho fatto di male? Ti prego,
fammi un favore: dammi l'infelicità di qualcun altro al posto della
mia. Scambia la mia infelicità con quella di qualcun altro a tua
scelta, e io l'accetterò».
Quella notte, dormendo, fece uno strano sogno. Vide un palazzo
immenso con milioni di ganci appesi alle pareti, e milioni di
persone che entravano, recando ciascuna un fardello d'infelicità
sulla schiena. Vedendo tanti fardelli d'infelicità, rimase
sconcertato e si spaventò: i fagotti portati dagli altri erano molto
simili al suo; la forma e le dimensioni erano le stesse. Cadde in
un'estrema confusione: aveva sempre visto i suoi vicini sorridere, e
tutte le mattine, quando chiedeva loro come andava, si sentiva
rispondere: «Molto bene». Adesso vedeva che quelle stesse persone si
portavano dietro la sua stessa quantità di infelicità.
Vide politici con i loro sostenitori, e guru con i loro discepoli:
tutti con lo stesso carico. Il saggio e l'ignorante, il ricco e il
povero, il sano e il malato:
il carico era per ognuno lo stesso. Il mistico rimase sbalordito:
per la prima volta vedeva quei fardelli, mentre fino ad allora aveva
visto solo i volti delle persone.
All'improvviso una voce tuonò nella stanza: «Appendete i vostri
fardelli!». Tutti, incluso il mistico, fecero com'era stato
ordinato, affrettandosi a liberarsi dei propri problemi; nessuno li
voleva portare un secondo di più; anche noi, se ci fosse data una
simile possibilità, li appenderemmo subito da qualche parte.
Poi risuonò un'altra voce, che disse: «Adesso, ognuno di voi prenda
il carico che preferisce». Potremmo sospettare che il mistico
prendesse rapidamente il carico di qualcun altro, ma non fece un
errore simile. In preda al panico, corse ad afferrare il suo
fardello, prima che qualcun altro lo prendesse; altrimenti avrebbe
avuto un problema in più, visto che avevano tutti lo stesso aspetto.
Il mistico pensò che fosse meglio avere il proprio fardello, almeno
le sue sofferenze gli erano familiari. Chissà quali dolori c'erano
nei fardelli degli altri? Un'infelicità con cui si ha familiarità è
di per sé meno triste: è un'infelicità nota, conosciuta.
Per cui, in stato di panico, si precipitò a recuperare il suo
fardello, prima che qualcun altro potesse metterci sopra le mani.
Ma, guardandosi intorno, scoprì che tutti erano corsi a riprendere i
loro fardelli; nessuno aveva preso quello di un altro. Chiese:
«Perché avete tanta fretta di riprendere i vostri fardelli?».
La risposta fu: «Ci siamo spaventati. Finora avevamo creduto che
tutti gli altri fossero felici e solo noi non lo fossimo». A
chiunque il mistico ponesse quella domanda, la risposta era la
stessa: tutti avevano sempre creduto che gli altri fossero felici.
«Addirittura pensavamo che anche tu fossi felice, perché camminavi
sempre con il sorriso sul volto; non avremmo mai immaginato che
anche tu portassi un carico di tristezza dentro di te» dissero.
Spinto dalla curiosità, il mistico chiese: «Perché avete ripreso il
vostro fardello e non lo avete scambiato con quello di un altro?».
Quegli altri risposero: «Oggi, ognuno di noi aveva pregato Dio
chiedendogli di scambiare il proprio fardello d'infelicità. Ma
quando abbiamo visto che i fardelli erano uguali per tutti, ci siamo
spaventati; non avevamo mai immaginato una cosa simile. Per cui
abbiamo capito che era meglio riprenderci il nostro carico, quanto
meno ci è noto e ci è familiare. Perché accollarsi nuove tristezze?
A poco a poco, ci siamo abituati alle vecchie». Quella notte nessuno
prese il fardello di qualcun altro. Il mistico si svegliò e
ringraziò Dio, colmo di gratitudine, per avergli permesso di
riprendersi la sua infelicità. E decise che non gli avrebbe mai più
rivolto preghiere simili.
Tratto da: OSHO,
"L'immortalità dell'anima" |
[...]Più tardi, una
volta che Joshu era via, i monaci delle stanze orientali e
occidentali iniziarono a litigare. Ci fu una disputa che, alla fine,
si concentrò intorno a un gatto. Nel vedere i monaci discutere a
proposito del possesso di un gatto, Nansen lo sollevò dicendo:
«Se sapete dire una parola zen salverete il gatto, altrimenti lo
taglierò in due. Nessuno riuscì a parlare e Nansen lo uccise. Quella
sera quando ritornò Joshu, Nansen gli raccontò l'accaduto. Joshu si
tolse il sandalo, se lo mise in testa e uscì.
"Se tu fossi stato
presente avresti salvato il gatto", commentò Nansen».
Tratto da: David Scott & Tony
Doubleday, "Lo Zen" |
[...]Un altro Maestro, Etsugen, poco prima di
morire radunò tutti i suoi monaci. Era il primo dicembre. Disse
loro: «Ho deciso di morire l'otto di questo mese. È il giorno in cui
il Buddha si illuminò. Se avete delle domande da farmi sulla
Dottrina, è meglio che le facciate prima di quel giorno».
Poiché il Maestro, nei giorni successivi, continuava a compiere
regolarmente i suoi doveri, alcuni monaci pensarono che si fosse
preso gioco di loro. Comunque, la maggioranza si sentiva afflitta
dal dolore.
Fino alla sera del sette dicembre, non era accaduto niente di
insolito. Per di più, quella sera Etsugen li aveva radunati tutti e
aveva parlato loro dell'illuminazione del Buddha, per l'ultima
volta. Poi aveva sistemato le sue cose e si era ritirato in camera.
All'alba, si fece un bagno, indossò i suoi abiti da cerimonia e,
seduto eretto nella postura del Loto, compose questa poesia sulla
morte: Shakyamuni scese dalla montagna.
Io salii.
Nel mio insegnamento,
suppongo di essere stato sempre un po' individualista.
E ora sono in viaggio verso l'inferno - jo-ho!
La fame di ricerca degli uomini è pura follia.
Poi chiuse gli occhi
e, restando seduto, morì. Tratto da: OSHO,
"La canzone della vita" |
«Joshu andò da un
eremita e chiese: "C'è il maestro? C'è il maestro?". L'eremita
sollevò il pugno. Joshu disse: "Qui l'acqua è troppo bassa per
gettare l'ancora", e se ne andò. Giungendo da un altro eremita,
chiese di nuovo: "C'è il maestro? C'è il maestro?". Anche questo
eremita sollevò il pugno. Joshu disse: "Libero di dare, libero di
prendere, libero di uccidere, libero di salvare", e fece un inchino
profondo».
Tratto da: David Scott & Tony
Doubleday, "Lo Zen" |
Esaminare la Via del Buddha è esaminare se stessi.
Esaminare se stessi è dimenticare se stessi.
Dimenticare se stessi è venire illuminato dai diecimila Dharma.
Essere illuminato dai diecimila Dharma è essere liberati dal proprio
corpo e dalla propria mente e da quelli degli altri Non rimane
traccia di illuminazione, e questa illuminazione senza traccia
continua per sempre.
Quando all'inizio uno cerca il Dharma, è molto lontano dal suo
ambiente.
Quando uno ha già trasmesso il Dharma -a se stesso in modo giusto,
in quel momento è già il sé originario. Quando si naviga, se si
guarda la costa, si potrebbe pensare che è la costa a muoversi.
Se uno esamina i diecimila Dharma con illusione di corpo e mente,
penserà che la propria mente e la natura siano permanenti.
Se uno pratica a fondo e ritorna al vero Sé, diventerà chiaro che i
diecimila Dharma sono privi di sé.
La legna da ardere diventa cenere, e non si trasforma di nuovo in
legna da ardere.
Ma non ipotizzare che la cenere sia dopo e la legna da ardere prima.
Dobbiamo capire che la legna da ardere è nello stato in cui è legna
da ardere, e in quanto tale ha il suo prima e il suo poi. Tuttavia,
malgrado il suo passato e futuro, il suo presente è indipendente da
loro.
La cenere è nello stato in cui è cenere, e in quanto tale ha il suo
prima e il suo dopo.
Come la legna da ardere non diventa legna da ardere dopo essere
diventata cenere, così dopo morte, non si ritorna a vivere di nuovo.
In questo modo, che la vita non diventi morte è un fatto assoluto
del Dharma del Buddha, e per questa ragione la vita è chiamata
Innata.
Che la morte non diventi vita è il ruotare buddhico della perenne
Ruota del Dharma, e quindi la morte è chiamata il non-estin-to.
La vita è un periodo a sé. La morte è un periodo a sé.
Tratto da: David Scott & Tony
Doubleday, "Lo Zen"; frammento del «Shobogenzo Genjo Koan» di Dogen
Zenji |
Il Maestro Tenno era in
punto di morte, chiamò nella sua stanza il monaco incaricato nel
tempio di provvedere il cibo e gli abiti.
Quando il monaco si
sedette accanto al letto, Tenno gli chiese: «Hai capito?».
Non gli aveva detto niente e gli chiedeva: «Hai capito?».
«No» gli rispose il monaco perplesso.
Tenno scoppiò in una risata e ripeté: «Hai capito?».
«No» gli rispose il monaco, ancora più perplesso.
Allora Tenno raccolse il proprio cuscino, lo lanciò dalla finestra e
chiese: «Hai capito?».
Il monaco gli rispose: «No. E tu mi stai confondendo sempre di più».
Tenno concluse: «Benissimo. Allora farò ciò che voglio fare
veramente!». Chiuse gli occhi, emise un ruggito da leone e morì.
Tratto da: OSHO,
"La canzone della vita" |
Era un bellissimo
pomeriggio e una tartaruga decise di fare una passeggiata sulla
terraferma. Si riposò sotto gli alberi baciati dal Sole e girovagò
tra i cespugli per il puro piacere di farlo. Poi tornò al suo
stagno.
Uno dei suoi amici, un pesce, le chiese: «Dove sei stata?».
La tartaruga rispose: «Sono andata a fare una passeggiata sulla
terraferma».
E il pesce commentò: «Che cosa significa: fare una passeggiata sulla
terraferma? Devi voler dire: nuotare».
Ridendo, la tartaruga esclamò: «No, non ho nuotato, non ho fatto
niente che assomigli al nuoto. Ho fatto una passeggiata sulla
terraferma».
Il pesce di rimando: «Mi stai forse prendendo in giro? Io sono stato
dovunque, è possibile nuotare in ogni luogo. Non ho mai visto un
luogo in cui sia impossibile tuffarsi e nuotare. Ciò che mi dici è
assurdo. Sei impazzita?».
Tratto da: OSHO,
"La canzone della vita" |
Un giorno il Buddha
era sul Picco dell'Avvoltoio e predicava a una congregazione di
discepoli. Tuttavia non usò parole per spiegare l'argomento che
voleva trattare, bensì sollevò davanti all'assemblea il mazzo di
fiori che un discepolo gli aveva offerto. Nessuna parola uscì dalla
sua bocca, e nessuno capì il significato di questo atteggiamento a
parte il venerando Mahàkashyapa che sorrise serenamente al maestro,
avendo afferrato in pieno il significato di quell'insegnamento
silenzioso.
Il Buddha, notando ciò, proclamò solennemente: «O Mahậkashyapa,
in questo momento ti trasmetto il mio più prezioso tesoro
spirituale».
D. T. Suzuki; tratto da: David Scott & Tony
Doubleday, "Lo Zen" |
Ho sentito...
In un villaggio un uomo impazzì. Era un pomeriggio assolato e lui
camminava tutto solo per la strada. Camminava veloce, cercando di
non aver paura... Se c'è qualcuno si può aver paura, ma se non c'è
nessuno intorno come si fa a spaventarsi? Eppure noi abbiamo paura
anche quando non c'è nessuno. In realtà abbiamo paura di noi stessi,
e quando siamo soli la paura è ancora più grande.
Quell'uomo era solo, e si spaventò al punto da mettersi a correre.
Era un pomeriggio tranquillo e sereno, e non vi era nessuno attorno
a lui. Quando si mise a correre, sentì il suono dei passi rimbombare
precipitosi dietro di sé, e si spaventò ancor di più: forse qualcuno
lo stava inseguendo. Allora, impaurito, si guardò alle spalle con la
coda dell'occhio e vide una lunga ombra che lo inseguiva. Era la sua
ombra, ma vedendo che gli correva dietro, corse ancor più
velocemente. A quel punto non fu più in grado di fermarsi, perché
più forte correva e più rapida l'ombra lo seguiva; alla fine
impazzì. Ma certa gente venera anche i pazzi...
Quando lo videro correre in quel modo per il
, villaggio, in molti pensarono che stesse seguendo qualche pratica
ascetica di grande rilevanza. Non si fermava mai, se non nel buio
della notte, quando l'ombra spariva facendogli credere che nessuno
lo inseguisse più; all'alba ricominciava a correre. Alla fine non si
fermò più neanche di notte: pensò che, malgrado la distanza percorsa
di giorno, mentre riposava l'ombra lo raggiungesse e ricominciasse a
inseguirlo al mattino.
Allora si mise a correre anche di notte; impazzì completamente: non
mangiava, né beveva. Migliaia di persone lo osservavano,
ricoprendolo di fiori o porgendogli pane o acqua. La gente cominciò
a venerarlo ancor di più; a migliaia lo rispettavano. Ma lui impazzì
sempre più, finché un giorno stramazzò a terra e morì. Gli abitanti
del villaggio in cui morì gli eressero una tomba all'ombra di un
albero e chiesero a un vecchio mistico della zona cosa scrivere
sulla lapide. Il mistico dettò alcune righe.
Da qualche parte, quella lapide esiste ancora. Qualcuno ci si
potrebbe anche imbattere. Il mistico vi fece scrivere: «Qui giace un
uomo che ha sprecato tutta la sua vita fuggendo dalla propria ombra.
Un uomo che ne sapeva meno della sua stessa lapide, perché questa è
protetta dall'ombra e non corre, quindi non crea ombra alcuna».
Tratto da: OSHO,
"L'immortalità dell'anima" |